La scomparsa della luna
E’ un romanzo sospeso tra reale e surreale, in cui Vito Lario, coinvolto in un misterioso evento planetario (che ha sconvolto la vita sulla terra azzerando conquiste scientifiche e tecnologiche e mettendo in discussione tutte le sicurezze di una volta, soppiantate ora dalla sola certezza della precarietà dell’esistenza), cerca di ricostruire a poco a poco la sua storia, per ritrovare se stesso in un nuovo rapporto col passato e col presente. La vicenda, al limite della follia, s’intreccia con la vita di altre cinque persone sperdute. Tempo reale e tempo mentale si mescolano nella narrazione, producendo un complesso gioco di piani cronologici e di effetti artistici. Spesso anche il passato e il futuro sono ricondotti al presente, come ricordo vivo o come attesa palpitante, speranza, aspirazione. La narrazione, quindi, si muove su due binari: su una scansione cronologica lineare e su una dimensione temporale mentale fatta di ricordi, riprese, flashback (passato), discussioni e riflessioni (presente), progetti, presentimenti e anticipazioni (futuro), che si incrociano e si contaminano, sconvolgendo l’ordine temporale tradizionale.
La scomparsa della luna
- Pasquale MATRONE, «La Nuova Tribuna Letteraria», XX (4° trimestre 2010), n. 100, p. 47
- Sandro GROS-PIETRO, La scomparsa della luna, XVII (febbraio 2011), n. 44, p. 246
- Gianrocco GUERRIERO, Una meditazione sull’essenza dell’uomo nel primo romanzo di Michele Battaglino, 15 maggio 2011
- Sophie LAPIERRE, Il tempo misto (tempo reale e tempo mentale) nel romanzo , La scomparsa della luna - Paris, 23 giugno 2011
- Antonio MASSARO, La sopravvivenza tra reale e surreale, «La Gazzetta del Mezzogiorno. Basilicata», 30 ottobre 2011, p. XIV
- Vittorio PARO, «Sìlarus», LI (novembre-dicembre 2011), n. 278, p. 93 s
- Floriano ROMBOLI, La scomparsa della luna: un Bildungsroman rovesciato, 10 febbraio 2011
- Emanuele VERNAVA', Michele Battaglino e la sua metafora cosmica, «Il Quotidiano della Basilicata», 25 agosto 2013, p.11
- Nicolò SPAMPINATO, Catania, 12 maggio 2011
[…] Anche nel romanzo di Battaglino tutto nasce da un evento disastroso, un vortice, una sorta di fine del mondo (una vera, concreta e, tuttavia, misteriosa catastrofe) che scuote il pianeta, rubandogli la luna e lasciando al suo posto due stelle luminose mai viste prima. In una terra che non è più la stessa, tra cadaveri ammassati e silenzi sinistri, i pochi superstiti, privi del sia pur minimo brandello di memoria, vagano come fantasmi catapultati su un palcoscenico surreale e funereo, chiamati a esistere senza essere stati interpellati, dannati a vagare senza una meta… Sono forse morti? Stanno sognando? Perché, come e da quando si trovano lì?
Dentro la struttura complessa e ben costruita della grande metafora, si muovono creature indifese, inconsapevoli, smarrite, in cerca di senso, ansiose di capire, di riappropriarsi del proprio destino, di farsi protagoniste dignitose di un’ irrinunciabile rinascita. Disegnati con mano sicura, i personaggi, uno dopo l’altro, ciascuno con una sua connotazione ben precisa, si materializzano e rimangono vivi e veri nella mente di chi li incontra: Vito Lario, suor Celeste Occhiblù, Konrad, Osman, Nicolae, Dora, Ahmed, la malinconica ragazza cinese… Diversi per provenienza, cultura, razza ed estrazione sociale, i personaggi spinti dal bisogno riescono a mettersi in comunicazione, sperimentando una sorta di linguaggio comune. Devono farlo per sopravvivere. E devono, se intendono mettersi in gioco, uscire dalla paura e dalla smemoratezza, recuperando a poco a poco il loro passato, infrangendo barriere e pregiudizi, nel nome di quella natura da cui tutti derivano.
Il gioco letterario si fa, a poco a poco, più chiaro. Dall’impasto di reale e surreale, ben amalgamati e tali che la soglia che li separa riesce spesso a mimetizzarsi sino a scomparire, emerge il messaggio di Michele Battaglino. Lui, intellettuale della Basilicata trapiantato in Toscana, uomo di scuola e poeta avvezzo a graffiare e a cantare, attraverso la scrittura vuole fare la sua parte: scuotere l’anima greve di una società malata, turbare le coscienze… Perché è ancora possibile ricominciare, abbattere i muri creati dall’ignoranza, ritrovare la luna scomparsa. E la luce. E l’acqua del Bradano, del Guadalquivir, dell’Arno: che è la stessa, come quella di tutti i fiumi del mondo. L’acqua lustrale destinata a mondarci da ogni sorta di fuliggine e a restituirci, accanto alle risorse della memoria, anche la fiducia, la speranza e la volontà di riprogettare e riedificare il mondo.
Il messaggio di Battaglino è convincente. E la scrittura, lineare e gradevole, non è da meno.
UNA MEDITAZIONE SULL’ESSENZA DELL’UOMO
Qual è l’essenza dell’uomo? È questa la domanda che fermenta, anche se mai esplicitata, nel romanzo di Michele Battaglino La scomparsa della luna (San Cesario di Lecce, Manni, 2010, pp. 215).
L’intero racconto, che si dipana spiraleggiando attorno a tale fondamentale quesito, sa avvalersi della delicatezza propria di ogni buona narrazione e della capacità di far comparire, alla fine, nella mente del lettore un’immagine nitida della ‘risposta’, neanche questa formulata in termini precisi, perché ogni definizione riduce, limita, può essere fuorviante o deformabile dalle aspettative e dalla cultura di chi l’assorba.
E Battaglino non vuole correre un simile rischio. Da esperto di letteratura qual è, sa benissimo che i ‘messaggi’ importanti devono avere la consistenza del vento e saper parlare mille lingue, per poter dire la stessa cosa, lasciandola sedimentare sotto la pelle sottile del linguaggio.
Così, in una trama lineare nella forma e spiazzante nei contenuti, l’operazione di ‘sfoltimento’ ha inizio già a partire dall’incipit: il protagonista, Vito Lario, si ritrova a svegliarsi in un luogo che non conosce, in un’atmosfera che gli è affatto estranea, in un silenzio assordante che mette ancora più in risalto l’idea che ancora serba di ciò che (fino a un istante prima?) pensava fosse l’unica forma possibile della propria esistenza: una matassa inestricabile di relazioni, abitudini, luoghi comuni, percorsi canalizzati a senso unico. Ora, invece, solo l’autocoscienza e il senso d’identità corrispondono al nome di Vito Lario, al vertice di una scia di memoria che già sfuma nell’irreale, mentre un mondo che egli non sarebbe neanche stato in grado di immaginare è lì, solido e invasivo, fuori dalle porte sensoriali del suo corpo.
Come ben presto scoprirà, dopo aver camminato tanto (senza sapere dove e perché) e aver incontrato altre persone nelle sue stesse condizioni, anche il cielo è mutato: non c’è più la luna; e una coppia di punti luminosi è quel che resta delle stelle, mentre la terra, sotto i suoi piedi, è insolitamente calda, come un grembo materno.
A questo punto il lettore si aspetta che andando avanti nella lettura, come il cinema di serie lo ha abituato, il mistero vada pian piano districandosi fino a rientrare nel recinto delle sicurezze consolidate al di fuori del proprio io. Ma non è quello il ‘ricovero’ al quale mira a condurlo l’Autore, per il quale lo scenario apocalittico è tutt’altro che fine a se stesso.
Non è bello anticipare i nodi portanti di un romanzo, rovina il gusto della lettura e, quindi, è meglio non farlo. L’arcano, quello vero, sarà svelato all’ultima pagina, mentre Vito Lario si riaddormenta, per la prima volta nella sua vita purificato, finalmente consapevole di ciò che è e di ciò che vuole.
Battaglino, dirigente scolastico in pensione, poeta e autore di numerosi saggi di riconosciuto valore storiografico, con questo libro si misura per la prima volta, e con soddisfazione, con la narrativa.
IL TEMPO MISTO (TEMPO REALE E TEMPO MENTALE) NEL ROMANZO LA SCOMPARSA DELLA LUNA
Nel romanzo La scomparsa della luna tempo reale e tempo mentale s’intersecano e si alternano nella narrazione, producendo un complesso gioco di piani cronologici e di effetti artistici. Solo in parte simile a quello che, relativamente al romanzo Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, Cesare Segre chiama il tempo curvo, cioè il girare della ruota del tempo che mescola e sconvolge presente, passato e futuro: «il sovrapporsi [nel romanzo] di una misurazione cronistica che scandisce regolarmente il ritmo delle vicende, e di pulsioni sovratemporali che anticipano l’avvenire, o protraggono il passato, facendo girare a volontà la ruota del tempo verso i momenti cruciali del secolo di Macondo [la città in cui si sviluppa buona parte degli avvenimenti]» (Cesare Segre, Il tempo curvo di García Márquez, in I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, con una nuova introduzione, Torino, Einaudi, 2008, p. 251 s.). In realtà si tratta di un’operazione inversa: mentre in García Márquez passato e futuro prendono il sopravvento sul presente, il quale «viene quasi messo tra parentesi, la parentesi della memoria e la parentesi del presentimento» (Ibidem, Introduzione, p. XXVII), in Battaglino spesso anche il passato o il futuro è ricondotto al presente, il primo come ricordo vivo (si veda il frequente inserimento di verbi al presente, presente storico, in narrazioni con verbi al passato), il secondo come viva attesa, speranza, aspirazione (e questo spiega e giustifica i continui monologhi del protagonista Vito Lario o i suoi dialoghi con suor Celeste e Ahmed sui propositi da realizzare, sui possibili soccorsi, su una probabile catastrofe finale).
Pertanto la narrazione procede contemporaneamente su due binari: quello del tempo lineare e quello del tempo mentale, che, incrociandosi, mescolano passato, presente e futuro, modificando l’ordine temporale tradizionale.
Quanto alla realtà rappresentata nel romanzo, l’Autore distingue e fonde due piani o strati diversi: il piano della realtà materiale o storica (che descrive gli avvenimenti con particolari e dettagli realistici, anche se tutta la vicenda è avvolta da un’aura misteriosa e surreale) e il piano della realtà immateriale o mentale (che cerca il senso profondo delle cose, il sovrasenso immateriale nascosto, il quale soltanto potrebbe giustificare e sostenere l’esistenza umana). Naturalmente per Battaglino la costruzione di una precisa e articolata realtà materiale non è fine a sé stessa, ma è soprattutto (o soltanto) un pretesto per rappresentare la realtà immateriale.
In effetti i veri temi sono questi: la fragilità e precarietà dell’esistenza umana e la solitudine dell’uomo; l’attaccamento alla vita e la forza della speranza (dura a morire); l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, di qualsiasi razza; la solidarietà e l’amore come valori indispensabili; la concezione kantiana della morale e del dovere; la tenerezza e delicatezza dei sentimenti; la luna come metafora dei sogni, delle speranze, delle aspirazioni, dei progetti.
Michele Battaglino è la tipica figura dell’intellettuale peregrinante, che ha presto lasciato la terra d’origine (Genzano di Lucania) per motivi di studio e poi di lavoro, legandosi ad altri luoghi, in particolare a Pisa, presso la cui Università si è laureato in Lettere classiche e dove ha concluso la carriera di dirigente scolastico al Liceo Classico “Galileo Galilei”. Oggi risiede a Pisa, a conferma di un processo ormai non reversibile d’intoscanamento, di una sicura acclimatazione psicologico-culturale verificabile anche a livello di modalità linguistico-espressive; con brusco moto prolettico mi permetto subito una citazione dal romanzo La scomparsa della luna (Manni, 2010), che costituirà l’oggetto specifico di questo intervento:
Trasformare il latte in formaggio o, più precisamente, tentare di trasformare il latte in formaggio, lui che non solo non l’aveva mai fatto, ma anche non aveva mai assistito all’operazione […] Pertanto, non era per niente sicuro che la cosa sarebbe riuscita. Innanzitutto sfrondò il carciofo, eliminando tutte le spine e tagliando le punte delle brattee, e lo lavò a modino. (pag. 114)
Il corsivo intende sottolineare il toscanismo significativo in uno scrittore lucano che ha al suo attivo una vasta produzione tanto saggistica che artistico-letteraria. Per il primo àmbito credo che valga la pena citare Origine di Genzano di Lucania, (Potenza, Zafarone & Di Bello,1981), ampliato e aggiornato in Ipotesi sulle origini di Genzano (Venosa, Osanna, 2010), il contributo Filippo de Marinis e la repubblica napoletana del 1799, compreso nel volume collettaneo Uomini e comunità dell’Alto Bradano (Bari, Puglia Grafica Sud, 1985) e il recente Aquilina di Monteserico (Venosa, Osanna, 2008), un lavoro dal rigoroso impianto storico-archivistico dedicato alla figura di una feudataria fondatrice in Genzano nel secolo XIV di un monastero di clarisse; mentre per il secondo ambito sono degne d’interesse quattro raccolte di poesie: Sotto il cielo di tutti (Milano, Editrice Italia Letteraria, 1980), Miopia (Venosa, Osanna, 1987), Radici e ali (San Cesario di Lecce, Manni, 2006) e Variazioni lucane (Pisa, ETS, 2008). Vorrei soffermarmi sul titolo della penultima silloge, che nella sua referenzialità descrive bene un tratto centrale del “mondo” etico-intellettuale dell’autore: sono in lui vivi il senso di appartenenza, l’orgoglioso radicamento in un’area geografica determinata, in una precisa tradizione storico-culturale, ed è nondimeno operante uno spiccato desiderio di libertà mentale, di larga conoscenza unito a un’indubbia disponibilità esplorativa.
Nella lirica eponima si leggono infatti questi versi:
Segno tangibile di appartenenza resta la cadenza apulo-lucana l’affiorare istintivo di proverbi e lessemi dialettali per scolpire sentenze o ravvivare emozioni la visione ricorrente di campi di grano colline ondulate armenti ma anche la voglia di volare oltre la fitta barriera dei monti squarciando il velo della conoscenza sperimentare la varietà delle razze (delle coscienze e dei comportamenti)… (Radici e ali, vv.1-12)
La realtà è spesso resa formalmente da Battaglino attraverso la correlazione antitetica di buio e luce (“Nembi minacciosi attraversa / un sole effimero indispettito. / Forse altri mondi il suo fuoco accende / e mette in movimento. / Inaridita intristisce la terra / e il giorno si fa notte / e le stagioni alla deriva”, Squittisce la rondine sulla mimosa, vv.8-14), allo scopo di metterne in risalto l’intima contraddittorietà; pur se la concezione del poeta appare caratterizzata da un sincero amore per la natura (“Spalanca la finestra e vede / il sereno dopo lo scombussolamento / nero degli elementi. / Scrosciare fitto e dirotto per ore / con turbinio di foglie sotto i platani…” vv.1-5). E’ inoltre diffusa nei testi l’idea che la vita consiste in un complesso di elementi in delicato, difficile equilibrio, che può essere sovente turbato, e talora sconvolto, magari da un cataclisma improvviso:
Così la vita nel suo snodarsi quotidiano con accecamenti e inciampi e accelerazioni. Quanto penoso arrabattarsi ma se si spezza il filo una forza ci scaraventa nel risucchio di un cono senza luce (Un celeste continuo movimento, vv.11-17).
1. Con il romanzo l’universo tematico appena accennato viene posto in tensione problematico-narrativa, conosce uno svolgimento obiettivato secondo le misure più lunghe e organiche di un plot, giacché proprio il prodursi di una grande catastrofe naturale costituisce lo spunto iniziale, l’accadimento determinante il primo movimento nella struttura narrativa, l’esordio del racconto:
«Un boato terribile, il cielo scuro e un vento vorticoso e, subito, un ruotare confuso di oggetti, edifici, persone?» «Sì, sì, proprio così!»» «Come è capitato a me. Io ero sul Lungarno, alla fermata dell’autobus, che era in ritardo. Diverse persone aspettavano, quando un vento stranissimo ha risucchiato tutto sballottandoci e scaraventandoci chissà dove. Non so quanto sia durato, perché devo essere svenuto e non ricordo niente più. Quando ho aperto gli occhi, ero steso là, presso quel masso.» «Ma, allora, c’è stato un cataclismo su nostro pianeta?» «Credo di sì, un vero cataclisma, una catastrofe.» (pagg. 14-15)
Il contesto naturale risulta di conseguenza profondamente mutato e la “scomparsa della luna” rappresenta l’aspetto più immediato e appariscente di uno “scombussolamento” (pag.18) non solo esteriore, bensì attivo nell’animo dei personaggi – i pochi sopravvissuti -, e in particolare nel protagonista, il professor Vito Lario, còlto di frequente in una condizione di forte disorientamento:
Era rimasto per tanto tempo alla finestra a guardare un mondo notturno insolito, non convincente, privo di luna e di costellazioni, bloccato dal silenzio. Un silenzio assoluto, irreale, spaventoso. Infinita tristezza l’aveva preso. Un vuoto tremendo, come un mancamento, un venir meno delle forze e dei sensi […] Un sole piccolo piccolo e sbiadito e la mancanza di luna e stelle, come il gruppo dell’Orsa Maggiore o quello dell’Orsa Minore con la stella polare, potevano significare che il pianeta Terra non era più al suo posto, che erano cambiati i rapporti e le posizioni nel cielo. (pag. 23)
Il suolo è surriscaldato, rotto in alcuni punti da impressionanti fenditure ove sono precipitati cadaveri in gran numero (“Una carneficina. Decine e decine di cadaveri ammassati alla rinfusa, umani e animali: teste mani gambe miste a corna musi zoccoli. Inoltre, osservando meglio, i cadaveri sembravano appiattiti, assottigliati, pelle e ossa”, pag. 26), mentre il pericolo di nuove scosse minaccia verosimilmente di distruggere anche quel poco che si è salvato dal disastro.
L’evocazione di una calamità devastante gli equilibri ambientali e il ricorso a uno scenario apocalittico, ai limiti della vivibilità, non sono nuovi e sarebbero agevoli, ad esempio, alcuni riferimenti cinematografici. Pensando invece alla letteratura, e in particolare al romanzo, la mente corre alla pagina conclusiva de La coscienza di Zeno (maggio 1923) in cui Svevo, memore delle acquisizioni scientifico-culturali delle teorie darwiniane, segnala le pericolose alterazioni qualitative prodotte dall’uomo -“ triste e attivo animale”- nell’ordine della natura, con la conseguente diffusione su larga scala di malattie considerate l’effetto della sua invenzione di “ordigni fuori del suo corpo” che nel tempo hanno deteriorato e infine bloccato i meccanismi della “selezione salutare”.
E’ nota al proposito l’ipotesi distopica, cioè l’utopia drammaticamente negativa – densa metafora nella quale si compendia una visione irreparabilmente pessimistica dell’umanità e della sua condizione storico-sociale – a cui lo scrittore triestino affida la possibilità estrema di un processo rigeneratore: “forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute”, giacché un esemplare di “animale occhialuto” un giorno troverà il modo di fabbricare un esplosivo di potenza incomparabile, e un altro più malato di lui lo ruberà e lo piazzerà al centro della terra; e allora “ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Si tratta, vede ognuno, di una situazione pseudo-risolutiva nella sua astratta paradossalità, et pour cause prospettata alla fine della narrazione, mentre ne La scomparsa della luna l’allarmante modificazione dell’habitat è un dato di partenza molto concretamente incidente nella vita quotidiana dello sparuto gruppo dei superstiti:
Un’altra urgenza incombeva, prima che scendesse il buio: accendere il fuoco nel camino e alimentarlo, perché lì non c’era nessun mezzo di illuminazione: né corrente elettrica né candele né pile. Ormai si avvicinava la sera. Non c’era altro da fare che attendere il mattino, per addentrarsi nei luoghi e capirci qualcosa. (pagg. 19-20)
In questa opera la struttura complessiva del testo, nonché la condizione intellettuale-psicologica dei personaggi rimandano piuttosto, con un energico salto temporale en arrière, al Robinson Crusoe, il romanzo di Daniel Defoe apparso nell’aprile del 1719:
Convinto che c’erano altri essere umani nei dintorni, dopo aver bevuto un po’ di latte e mangiato una fetta di cocco e dopo aver indossato abiti e calzari trovati lì, per risparmiare i propri, inadatti ad affrontare boscaglie e terreni brulli, si avviò, armato della solita mazza, alla scoperta del territorio. Sarebbe tornato in serata, per forza. (pag. 24)
Il corsivo, che è mio, vale un suggerimento interpretativo, dal momento che Vito Lario si dispone ad affrontare la nuova realtà forte – come Robinson – del tesoro di conoscenze accumulate e a lui trasmesse dalla tradizione culturale e dalla civiltà, e il suo è il comportamento laborioso e razionalmente attivo dell’homo faber:
Obbligato a stare in casa, Vito colse subito l’occasione per fare qualche lavoretto, rinviato per mancanza di tempo. Il giorno prima aveva già provveduto a sostituire la finestra rotta del piano terra con una del secondo piano, che era nuova e della stessa misura e che, lassù, non serviva, visto che l’ultimo piano restava inutilizzato. Poi s’impegnò a sistemare un piede traballante del tavolo, fissandolo meglio con dei chiodi, e a stringere la tela della branda di suor Celeste, sganciatasi e rallentatasi notevolmente. La sua amica maneggiava in cucina, in un silenzio rotto solo da un leggero rumore di stoviglie, e il vecchietto l’aiutava, alimentando di tanto in tanto il fuoco nel focolare. (pagg. 57-58)
Mi preme porre in rilievo un’altra analogia fra il Robinson e il romanzo di Battaglino, in quanto entrambi sono contrassegnati da una dinamica narrativa ambivalente, oscillante fra il racconto della paura, della viva tensione, a tratti dello sconforto, e i momenti in cui gli animi si rasserenano, tornando a essere sostenuti dalla fiducia e dalla speranza, specie se – come nel caso di suor Celeste, la religiosa di origine spagnola, detta fin da piccola Occhiblù, che si è consacrata con ammirevole abnegazione alla vita missionaria e che la sorte ha posto al fianco di Vito dopo lo sconvolgimento planetario – si crede fermamente nel soccorso della Provvidenza divina:
«Questa sera abbiamo anche il latte» disse allora la suora ingenuamente. Bastò un’espressione così banale a sciogliere d’un colpo la tensione che si era accumulata. Vito prese la brocca di legno, che suor Celeste aveva accuratamente lavata, e andò alla stalla a mungere le capre. (pag. 21)
Il pallore del sole non aiuta lo spirito dei due perseguitati dalla sventura, che, muti e con la coda fra le gambe, non fanno che rimuginare i medesimi dubbi, il medesimo tormento. Almeno un filo di luce ogni tanto, uno spiraglio, per ravvivare la speranza! Nemmeno questo. Che disdetta! Il silenzio nel quale si sono chiusi fa risaltare il fracasso del fiume, rendendolo più terrificante e misterioso […] La vista della fiumara riscosse Vito dai suoi pensieri, riportandolo sulla terra e ridandogli un senso di familiarità. Anche Occhiblù si rianimò e pensò ai pesci e al modo ingegnoso con cui Vito li catturava, facendola divertire e facendola pure impaurire qualche volta, quando, per scherzo, le accostava alla faccia una carpa viva che si dimenava. (pagg. 108-109)
2. A questo punto si potrebbe introdurre la nozione di Bildungsroman o romanzo di formazione o di educazione, un modello narrativo illustrato organicamente nella sua evoluzione storica alcuni anni fa da Franco Moretti (cfr. Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 19992), avente quale argomento principale il processo di maturazione del giovane ‘eroe’ borghese, il quale si confronta e si scontra con la realtà sociale attraverso una serie più o meno complicata di avventure romanzesche che lo temprano e lo trasformano, facendolo approdare, per dirla con il grande narratologo e teorico della letteratura russo Michail Bachtin, “all’assennatezza e al praticismo della maturità” (cfr. L’autore e l’eroe.Teoria letteraria e scienze umane, Torino, Einaudi, 2000, pag. 208).
Riguardo al testo che qui particolarmente ci interessa ritengo però indispensabile indicare una differenza di fondo: i protagonisti (Vito e suor Celeste, che proprio per la centralità del loro rapporto determinano un asse di aggregazione del materiale narrativo e quindi una tipologia del sistema dei personaggi essenzialmente binarî), lungi dal dover maturare una coscienza “adulta” della vita, sono già “maturi” in quanto hanno alle spalle scelte di vita fondamentali, storie vissute alla luce di un insieme di valori inequivoci, di solide convinzioni ideali.
Siamo dunque in presenza di un Bildungsroman rovesciato; le sfide che la nuova realtà ambientale propone ai personaggi, specie a Vito e a suor Celeste, invece che configurare una sequela di prove vòlte a scandire l’itinerario di costruzione progressiva di una personalità ancora acerba e informe, rappresentano l’occasione per una radicale riconsiderazione, sulla falsariga di sofferti recuperi memoriali (“Pensava continuamente Vito. Rovistava nel groviglio della memoria…”, pag. 26), del patrimonio complessivo di conoscenze scientifico-tecnologiche e di principî etico-culturali di cui constano l’identità profonda, le risorse ideali e le capacità operative dei singoli.
Era mezzogiorno. Il sole quasi a perpendicolo, minuscola sfera pallida e annoiata. Un calore tiepido palpabile proveniva dalla terra. Chissà quali fucine nel suo ventre, quali borboglìi! E che sconvolgimenti si stavano preparando! Il solito silenzio intorno. Non un uccello, un coniglio selvatico, un gatto […] Le parole dei due interlocutori tagliavano l’aria immobile. Chiaro, netto, distinto il timbro della voce. Tutto fermo, immobile. Il paesaggio era un grande dipinto affisso alla parete. ( pag. 142)
A fronte di una natura che, leopardianamente indifferente alla condizione umana, riafferma intera la propria potenza (distruttiva e auto-conservatrice), s’impongono serî interrogativi sull’effettiva consistenza e validità di schemi mentali acquisiti e modelli di vita praticati; la riflessione critica non è qui svolta con l’amarezza corrosiva e umoristicamente spietata del Mattia Pascal pirandelliano (protagonista di un romanzo anch’esso incardinato sul rovesciamento del modulo classico del Bildungsroman), né giunge a quegli esiti di sistematico scetticismo, poiché Battaglino affronta la problematica con la passione morale di chi vuole ancorarsi comunque a dei valori.
E’ opportuno a questo proposito sottolineare come la relazione e il dialogo continuo fra il professore e la suora forniscano inoltre, nella parte finale del libro, lo spunto per la focalizzazione di un tema di grande rilevanza filosofica quale il confronto-conflitto fra ragione e fede circa i problemi del significato della vita e della morte, e soprattutto della presenza del male e del dolore nella vicenda umana. Se Vito dà voce alle istanze del dubbio razionale («Perché Dio consente al dolore, alla sofferenza, ai cataclismi naturali, al male di abbattersi in modo indiscriminato sull’uomo? L’ha creato per questo? Perché la sua vita terrena sia un continuo penare? Se esiste un disegno, un progetto su ciascuno di noi, perché noi non dobbiamo conoscerlo?», pag. 180), Celeste invece ribadisce la giustificazione teologico-religiosa («Non ti arrovellare il cervello, Vito… Lo sai che sono domande a cui è impossibile dare una risposta umana convincente. Si crede, per fede, che Dio è un padre e, come tale, ama indistintamente tutti gli uomini, che sono suoi figli. Certe cose che succedono ci sembrano ingiustizie solamente perché non le capiamo. …», ibidem), più sul fondamento di una disponibilità spirituale che di una sicurezza dogmatica:
«Molte cose che tu dici forse sono vere… nessuno può essere certo… ma una religione vissuta, e non parlo di strutture gerarchie incrostazioni rituali e dottrinarie, è un grande aiuto a vivere… Su certi dogmi anch’io avrei da ridire. Ma la religione non è questo. La religione è soprattutto prassi e noi saremo giudicati per quello che abbiamo fatto e per come l’abbiamo fatto…» (pagg. 181-182)
La sostanziale binarietà strutturale del romanzo (gli altri personaggi, indubbiamente minori, sono introdotti per alludere a problemi della società contemporanea sempre più globalizzata e perciò aperta ai flussi migratorî dall’Est europeo oppure dall’Africa) è assicurata altresì dal racconto diffuso e particolareggiato della storia sentimentale fra i due protagonisti, còlta nel suo iniziale manifestarsi con occhiate e rossori e seguita nei passaggi successivi della reciproca attrazione, dagli abbracci ai baci, prima timidi, poi appassionati, fino all’amplesso finale.
Le condizioni esterne non sono di certo compatibili con le dolcezze “leggere” dell’idillio:
Sapeva che dal luogo in cui erano stati scaricati non c’era via di scampo. L’aveva presentito fin dal primo giorno, ma gli ultimi avvenimenti l’avevano inchiodato sull’amara realtà. Ormai si era rassegnato. Del resto, che altro fare? Uccidersi? Non l’avrebbe mai fatto e non sapeva se aborriva il suicidio per viltà o per coraggio… (pag. 186)
Infatti la situazione sembrerebbe indurre, se non a scelte disperate, allo sconforto più cupo, che però l’amore, esperienza elementare e di primaria importanza nella scala dei valori che stanno a cuore all’autore, è in grado di sconfiggere, assommando in sé tutte le forze che legano gli uomini alla vita e la rendono degna di essere continuata, non importa se per poco o per molto tempo.
Pisa, 10 febbraio 2011
Il romanzo La scomparsa della luna di Michele Battaglino si muove tra il fantastico e il surreale. Otto personaggi, provenienti da diversi continenti, si trovano all’improvviso scaraventati in un luogo dove tutto è nuovo e strano. Un evento apocalittico ha causato il loro smarrimento, la loro destabilizzazione. Ma cosa? Essi non lo sanno e non riescono a venirne a capo.
Il racconto inizia mentre Vito Lario, il protagonista, si sveglia «tutto rintronato» e tenta di capire, inutilmente, dove si trovi e quando sia arrivato in quel posto minaccioso e inquietante.
Narrando le vicende di questi personaggi sopravvissuti, l’autore coglie l’occasione per presentarci una serie di mali che affliggono l’umanità: la fame, le guerre civili, l’emigrazione clandestina, la prostituzione, le ingiustizie sociali. Affronta anche il problema religioso e quello filosofico-esistenziale mettendo, l’uno di fronte all’altro, due tipi umani molto presenti nella società, due diverse sensibilità, due diversi modi di pensare e di guardare gli uomini e le cose: quello di Vito Lario e quello di suor Celeste. Vito Lario incarna la figura del filosofo che cerca sempre il perché, la causa prima che muove ogni cosa e non si stanca mai di cercare, non si rassegna, non si dà pace. Celeste, una suora missionaria scalabriniana, è una creatura abituata a sentire e operare più che a pensare: ella, pur con alti e bassi, crede nell’infinita bontà della Provvidenza, cui ciecamente si affida senza perdersi nel mare dei perché.
Tutto questo è rappresentato con un linguaggio semplice, scorrevole e accattivante, con una tecnica compositiva che predilige la sinteticità, l’allusione e la mescolanza dei tempi, con la precisa intenzione di farsi capire e suscitare problemi, toccando il lettore e provocando discussioni.
[L’ incipit]
Quando si svegliò tutto rintronato, confuso, e si vide lì,
guardò intorno in cerca di una spiegazione, di un segnale, un
indizio, e non si raccapezzò.
Davanti a sé una pianura ampia, essenzialmente desertica,
con piccoli boschi e, qua e là, strisce di vegetazione che a pri-
ma vista sembravano coltivazioni razionali, sistematiche, e
non spontanee. L’orizzonte, chiuso per un terzo da catene di
monti abbastanza vicini, per il resto rimaneva aperto confon-
dendosi con la pianura che si allargava per chilometri e chilo-
metri. Un pezzo di terra apparentemente normale. L’anorma-
lità stava nel fatto che lui non sapeva come si trovasse in quel
luogo, mai visto prima.
Il terreno, fin dove arrivava l’occhio, era di un colore tra il
marrone chiaro e il rosso scuro e risultava tiepido sotto le
scarpe. Un tepore ingiustificato e inspiegabile, visto che il cie-
lo, particolare più strano di tutti, sovrastava cupo, grigio, con
un sole piccolo piccolo e pallido, dalla cui altezza si poteva
dedurre che il mezzogiorno era passato da due o tre ore. Il
formato ridotto del sole lo impressionò parecchio e gli fece
sorgere una serie di interrogativi.
Perché si trovava in quel posto sconosciuto? E come vi era
giunto? Con quale mezzo? Erano tutte domande alle quali
non sapeva dare una risposta. Forse stava sognando: solo la
dimensione del sogno poteva spiegare tanta irrazionalità e
certe stravaganze. In quanti sogni si verificano situazioni in-
credibili, irregolari, incomprensibili alla ragione umana, co-
me, per esempio, il correre correre, inseguito da qualcuno, e il
constatare che si è sempre fermi, inchiodati allo stesso punto.
O forse, addirittura, era morto e seppellito e ora si aggirava in
un altro mondo, un altro pianeta simile alla Terra. Si toccò la
faccia, i fianchi, tastò tutto il corpo, gridò qualche parola, col-
se un’erba, un sasso, si stropicciò gli occhi. Era vivo, col suo
corpo, sensibile, efficiente, almeno così credeva.
[…]
(cap. I, p. 7 s.)
[Il canyon e l’ammasso di cadaveri]
Una voragine profonda, ripida, paurosa si presentò agli oc-
chi di Vito, un canyon stretto simile a quelli visti in certi film
western, dove il pistolero, rincorso, li attraversa facendo com-
piere un lungo salto al cavallo. La spaccatura, larga appena
due-tre metri, era recente, dato che all’altro lato la strada ap-
pariva intatta.
Non era una comune frana, ma una fenditura perpendico-
lare del terreno, come se la roccia fosse stata tagliata da una
grossa lama e i due blocchi staccati di alcuni metri, due bloc-
chi uniformi come quelli di una mela spaccata a metà con le
mani. Stando attento a non scivolare nel vuoto, Vito si diste-
se carponi, si trascinò piano piano all’orlo, guardò giù per
qualche secondo e, inorridito, di scatto ritrasse gli occhi.
Fattosi coraggio, tornò a guardare. Uno spettacolo orren-
do. Una carneficina. Decine e decine di cadaveri ammassati al-
la rinfusa, umani e animali: teste mani gambe miste a corna
musi zoccoli. Inoltre, osservando meglio, i cadaveri sembra-
vano appiattiti, assottigliati, pelle e ossa.
(cap. III, p. 25 s.)
[La pesca alla fiumara]
Per giungere alla fiumara, nome più appropriato per quel
corso d’acqua, bastava seguire il canale scavato dall’acqua
sgorgante dalla sorgente. Portavano con sé una forca con reb-
bi di ferro, prelevata dalla stalla, e il paniere.
«Non sono mai andata a pescare» ruppe finalmente il silen-
zio suor Celeste, quando erano già giunti sulla riva, nel pun-
to in cui il letto era più profondo e le sponde più erbose. «Ep-
pure mi piacciono tanto i fiumi, i laghi, il mare.»
«Come a me. Ho sempre amato le città disposte sull’acqua
o attraversate dall’acqua, come Venezia, Amsterdam, Bruges,
Firenze, Pisa, Verona.»
«Sei stato in tutte queste città?»
«Sì… Mi fa più effetto una città attraversata dal fiume o da
canali che una bagnata dal mare. Non so perché. Quando ero
ragazzo di scuola media o di ginnasio e abitavo ancora nel
paese natio, in estate, andavo con gli amici a pescare nel Bra-
dano.»
[…]
Vito parlava, ma gli occhi erano tesi al fiume, in particola-
re a un punto in cui alcuni grossi pesci passavano e ripassava-
no. A un tratto, fece segno con l’indice a croce sulla bocca di
far silenzio. Si accostò di più alla riva, lentamente. Saggiò coi
piedi la resistenza del terreno e… zac! piantò con veemenza la
forca sul crocchio degli acquatici, non mollando l’asta. Ritor-
nata limpida l’acqua, vide che almeno tre erano rimasti serra-
ti tra i rebbi e si divincolavano. Pregò suor Celeste di tenere
premuto il manico, mentre lui si preparava a scendere nell’ac-
qua. Toltesi le babbucce e rimboccatisi i pantaloni fino alle
cosce e le maniche della camicia, si calò e si mise a manovrare
vicino ai rebbi, finché chiese alla suora di sollevare piano pia-
no la forca. Un pesce sfuggì, ma due rimasero stretti nelle sue
mani robuste e li mostrò vittorioso a suor Celeste, che, giuli-
va come una fanciulla, si piegò col paniere per accoglierli.
Erano due carpe, abbastanza grosse: ciascuna poteva pesare
sette-ottocento grammi. Ci si poteva accontentare. Ma, visto
il successo ottenuto, volle tentare un’altra impresa. Si piegò
sulle ginocchia, bagnandosi il sedere, e si mise a frugare nella
cavità della sponda. Niente. Si spostò di qualche metro, ripre-
se a tastare e… zaff! ne afferrò un altro, che tenne stretto con
entrambe le mani, perché si dibatteva come un ossesso. Era
un’alborella.
«Bravo, bravo!» gridò sorridente suor Celeste col paniere
al braccio.
[…]
(cap. V, pp. 46-49)
[Il terremoto]
Verso le diciannove e trenta, suor Celeste, immersa nei suoi
pensieri, stava asciugando le ultime stoviglie accanto al cami-
no e Vito, in piedi sulla porta, guardava distratto la strada il-
luminata, quando improvviso, cupo, fortissimo un lungo boa-
to sotterraneo assorda l’aria, la scuote. Trema la terra la casa
la porta. Rumori confusi di piatti in frantumi. La scala che
oscilla. È un pendolo. Si muovono i muri, scricchiolano. Ro-
tolano oggetti. Sbattono imposte. È il finimondo! Con due
salti Vito balza fuori, all’aperto, e grida: «Corri, Celeste, scap-
pa scappa! È il terremoto! Fa’ presto!…»
Celeste è una gazzella agilissima inseguita dal leone, im-
pazzita, terrorizzata. Eccola tra le braccia di Vito, in lacrime.
I due, stretti, sono foglie tremanti sotto un’impietosa bufera.
«¡El viejto!... Osman è rimasto su!… » disse, appena si rieb-
ne, e, staccatasi, si lanciò di scatto verso la porta, ma Vito, le-
sto, l’afferrò per il braccio e la fermò.
«Resta qui, Celeste, per favore! Vado io a prenderlo.»
«Sta’ attento, Vito, mi raccomando! » le gridò, quando l’ita-
liano era già scomparso nella casa e attese trepidando.
(cap. IX, p. 88 s.)
[L’aviogetto conficcato nella roccia]
Stanno costeggiando il grande fiume da circa un’ora. Il suo
flusso è lento e quieto. Tuttavia, si inizia a percepire un rumo-
re indistinto proveniente da lontano, che cresce man mano.
Poi si vede il mare e, prima, due grossi oggetti scuri, anneriti.
Intanto, il rumore è divenuto un fragore assordante e i due
esploratori sono alla fine del viaggio. Tra il letto del fiume e la
battigia c’è un dislivello di quattro-cinque metri e l’acqua si
butta nel mare con un grosso salto. La cascata produce un fra-
casso ininterrotto, cui si aggiunge l’incessante sbattere dei
flutti sulla scogliera.
Ora è chiaro: i due oggetti indistinti sono le due metà di un
aviogetto, di quello che resta di un aviogetto. Il velivolo è
spaccato in due. Il muso è un palo d’acciaio conficcato nella
roccia, con le gambe all’aria. La fusoliera giace distesa sullo
stretto bagnasciuga, invasa dalle onde che entrano ed escono.
Brandelli di ali, carrelli, coda, finestrini, apparecchiature, cor-
pi umani, tutti carbonizzati, coprono lo spazio intorno. Nel-
la cabina c’è ancora un ammasso nero confuso. Il jet avrà pre-
so fuoco, una volta conficcatosi nella roccia, visto che i resti
sono tutti abbastanza vicini. Quando si è verificato l’inciden-
te? Prima o durante il cataclisma generale del pianeta?
La scoperta del mar e non ha risolto nessun problema, ma
ha solo lasciato l’amaro in bocca.
(cap. VI, p. 107)
[La camicetta rossa]
Verso le cinque del pomeriggio, Celeste, con in mano un
mazzolino di fiori colti nei pressi della piscina e con addosso
una camicetta rossa sgargiante, di quelle lavate il giorno pre-
cedente, si reca a pregare sulla tomba di Osman. Vito, intento
a rifornire i bagni di acqua, la incrocia vicino alla panchina e
ne resta sorpreso e incantato.
[…]
Dopo una ventina di minuti, il professore, ancora frastor-
nato da quella camicetta attillata, sente gridare: «¡Socorro so-
corro, Vito…la vaca loca…furiosa…corri, Vito, auxilio!»
Vito si precipita dal primo piano, saltando gli scalini come
un forsennato. Giunto alla panchina, vede una mucca infuria-
ta, con la testa bassa e le corna puntate contro l’albero e, die-
tro l’albero, Celeste che grida atterrita. Prende la forca e cor-
re. Punge ripetutamente l’animale sulle cosce, sulle natiche,
sul dorso per scacciarla, senza nessun risultato. Celeste pian-
ge e si sposta dietro il tronco, a destra o a sinistra, a seconda
dei movimenti della mucca inferocita, decisa a incornarla. La
vacca è una forza cieca della natura, incontenibile. Muggisce
rabbiosamente e sbava e scalpita, insensibile a percosse e pun-
ture. A quel punto Vito ordina a Celeste di togliersi la cami-
cetta e di buttarla lontano. La poverina, in preda al terrore,
con le mani che le tremano e gli occhi sempre fissi alla bestia,
gli dà subito ascolto ma alcuni bottoni sembrano incollati al-
le asole e non vengono fuori. Nonostante gli sforzi, non rie-
sce a liberarsi del tutto da quel maledetto indumento.
«Strappala, strappala!» grida allora Vito. «Bene, così!.. ora
lanciala lontano! così…»
La mucca lascia l’albero, vola alla camicetta, la infilza nelle
corna e se ne scappa trionfante, appagata. Celeste si butta tra
le braccia del suo salvatore con un pianto convulso.
«Calmati, Celeste, è finita… è andata bene… calmati ora,
se no ti ammali…» e se la porta stretta a casa.
Le dette da bere. Celeste, seduta allo sgabello, era ancora
spaventata, tremava, gli occhi rossi e annebbiati. Chiese di an-
dare a letto. Vito l’accompagnò su, l’aiutò a spogliarsi e a sten-
dersi sotto la coperta. Le toccò la fronte: scottava.
[…]
(cap. XIX, pp. 183-185)
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